Non c'è sesso senza sesso #5

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Arrivati a questo punto del terzo progetto collettivo, tanto vale pubblicare la prima cosa che ci veniva in mente. Tanto vale farvi leggere una cosa arrivata via email in forma praticamente anonima. Tanto vale far giudicare anche voi se daremo un'altra chance all'autore (autrice?). Tanto vale dare spazio a tantovale.

È quasi l’alba, fuori. La prima brina compare tra l’erba e sugli impermeabili dei pochi, timidi, passanti.
Tu scegli di lasciarti coccolare ancora un po’ dal tepore delle coperte, mentre lotti per conservare gli ultimi brandelli di un sogno destinato a dissolversi con le luci del giorno.

Il desiderio ti consuma ancora e dalla fonda notte dei ricordi ti viene incontro quel suo sguardo languido, penetrante, circospetto. Quel suo sguardo volitivo e ardente.

Accanto a te una donna, bruna, nuda, con la quale non ricordi di esserti addormentato, ieri sera.

Con gli occhi ancora chiusi, ti senti accarezzare la pelle. E cerchi lei, tra le pieghe della tua coscienza.

Lei è lì, coricata su un fianco, leggermente rannicchiata. Sembrerebbe infreddolita. Pallida.

Di quel pallore che era virtù della donna che amavi. Era nuda la donna che amavi e aveva tenuto, conoscendoti, i suoi gioielli sonori, e quell’addobbo sfarzoso simile la rendeva, nei loro giorni felici, alle schiave dei mori. E quando, nella danza, quel mondo sfavillante di metallo e pietra mandava un vivo tintinnire, tu eri rapito dall’estasi e amavi quelle cose che sanno la luce e il suono unire.

Era adagiata la tua donna e si lasciava amare. Dall’alto letto sorrideva altera, dolce come il mare che verso lei saliva, quasi fosse scogliera. Ti guardava un po’ vaga e sognante, come tigre ammansita, così candida e lasciva che per quel suo mutare nuove ebbrezze ti dava. E il suo braccio e la gamba e la coscia, flessuosi come un cigno, passavano stampandosi nei tuoi occhi sereni; e il suo ventre e i suoi seni, grappoli della vigna che è tua, si protendevano invitanti come crudeli sirene.

L’anima destavano dal riposo e violando la roccia di cristallo dove ella era, solitaria e quieta, la stanavano.

Era bella, la tua donna.

Come è bella lei, che se ne sta lì, in tutta la sua sensuale prorompenza. La bocca bramosa, conturbante, ospitale. Quella bocca che immagini disposta a concedersi a qualunque fantasia, pronta ad accogliere e ricevere ogni cosa.

Lei è lì, le stoffe che disegnano il corpo nudo, le pieghe del cotone solo apparentemente disposte in ordine casuale, ad ingabbiare la tua curiosità.

La tua mano scivola delicata sul collo e poi scompare tra i voluttuosi capelli, profumato e vellutato gioco per le tue dita, affamate di sensazioni. Mordendoti il labbro, non puoi evitare di stringerli e tirare, dolcemente ma con decisione.

Muto e lascivo acconsenti a che la tua essenza aderisca alla sua, avido di contatti e sospiri.

Insegui vorace la sua scia e ti perdi in terre misteriose e inviolate. Nuoti tra onde di sole, e lotti contro la forza del vento, che vorrebbe trascinarti via. Sei in viaggio al centro di te, rapito da evanescenti visioni, prive di spessore eppure così suadenti.

Un meraviglioso viaggio verso terre lontane, alla conquista di un prezioso talismano cui la tua anima sordida anela. Quando, dopo lungo peregrinare lo raggiungi, quando il là diventa qua, i tuoi sensi annegano in esso e tu vedi tutto il tuo essere abbandonarvisi, colmarsi della voluttà di un unico totalizzante desiderio.

Urli. E l’eco ti restituisce frammenti di te.

Il suo sguardo, tuo pugnale.

Com’è pallida, lei.

tantovale

Oggensioni #5
Il supereroe

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Una nuova oggensione di gabbbbro, che farà la gioia dei grandi e dei piccini. E faciliterà la scelta dei prossimi regali di Pasqua.

Personalmente credo sia sbagliato comprare o regalare un supereroe. Le strutture pubbliche sono piene di supereroi in gabbia bisognosi di essere adottati, ma per Natale hanno regalato a mio figlio un giovane esemplare ed ho pensato che una recensione potesse aiutare molti di voi a non prendere una scelta avventata.
Ovviamente, come sempre in queste situazioni, è stato mio figlio a scegliere il nome, ed ha optato per Superman. Gli abbiamo spiegato che potrebbero esserci problemi di copyright e che inoltre questo supereroe è una femmina, ma non ha voluto sentire ragioni.
Il regalo proviene dal mio amico Davide. Ha detto che una femmina crea meno danni durante la crescita e mi ha garantito che sarò lieto di vedere il genere di vestiti che indosserà a diciott’anni.
Superman è una dodicenne dalle pelle nerissima, ma la nostra famiglia non fa discriminazioni di questo genere. Per questo abbiamo tacitamente accordato che Superman è di fede ebraica, così avremo una ragione per emarginarla.
Generalmente non si regalano supereroi che non abbiano ancora manifestato i propri poteri: nessuno vuole ritrovarsi in casa un ragazzino che prende fuoco mentre gioca con tuo figlio sulla moquette. È bene lasciare che i piccoli crescano con i propri genitori fin quando non sviluppano i superpoteri, e a quel punto attendere che la mamma e il papà muoiano in uno scontro con qualche supercriminale (o con qualche supereroe, certo, anche se è difficile che qualcuno voglia comprare il figlio di un supercriminale, temendo vendette che possono arrivare anche dopo anni - magari in un numero speciale).
La piccola Superman non fa eccezione: appena resi visibili i suoi poteri, è stata inventata una qualche ragione per arrestare i suoi genitori (è stato molto facile, poiché sono neri) ed è stata acquistata da una fumetteria che tratta anche cuccioli di supereroi, dove poi Davide l’ha comprata per 350 euro (l’ho letto sullo scontrino che il mio amico mi ha lasciato per eventuali cambi).
La sua abilità consiste nel passare attraverso i muri. Ciò non le consente, come molti erroneamente credono, di attraversare le persone o gli oggetti o di immergersi nel terreno o, finanche, di volare. Può solo passare attraverso i muri. Neanche attraverso le finestre, solo i muri. Questo inizialmente ci ha messo in allarme: Superman sarebbe potuta scappare agilmente in qualsiasi momento, e mettersi in pericolo. Abbiamo aggirato il problema scrivendo su ogni parete di casa “Questo non è un muro”, e l’espediente ha funzionato. Purtroppo ora gli eredi di René Magritte ci stanno dando la caccia per falsificazione di opere d’arte.
A parte questo, la capacità di Superman si sta rivelando decisamente preziosa. Nei ristoranti, può facilmente intrufolarsi in cucina per verificare che il cuoco non sputi nel brodo; in albergo chiediamo sempre di alloggiare vicino ad una stanza vuota, della quale poi ci appropriamo indebitamente; a casa di amici, facciamo puntualmente lo scherzo di svuotare le loro casseforti, anche se per quello è costretta a servirsi di uno stetoscopio o di una fiamma ossidrica.
Mio figlio non sembra attirato dall’intangibilità di Superman, quanto dall’altro suo superpotere: essere nell’età dello sviluppo.
Un supereroe è in grado di provare emozioni, quindi potrà assillarvi con capricci, pianti singhiozzanti ed altri disturbi facili da sedare con una punizione corporale. Se decidete di farlo dormire fuori, assicuratevi che usi i servizi igienici prima di dormire altrimenti vi insozzerà le begonie.
Ribadisco però quanto stabilito nella premessa: non comprate un supereroe, adottatelo. Anche i supereroi adulti possono avere bisogno di affetto. Certo, evitate di prendervi un impegno più grosso di quanto possiate mantenere: se la vostra auto è una Panda, non prendete con voi un giovanotto col potere della superforza in stile Hulk, perché non potrete portarvelo da nessuna parte a meno che non sia lui a mettersi in spalla la Panda.
Ciò detto, ricordate che non importa il potere della creatura che andrete a ospitare, quanto la dimensione (effettiva o potenziale) delle sue tette.

gabbbbro

Non c'è sesso senza sesso #4

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Ahi voi! Ritorna borges, beh potete sempre accusarlo di uso privato di blog privato. Comunque ecco cosa succede a non avere la propria dose di Ruby giornaliera.

Vieni qua, dai stringiti un po’, voglio sentire il tuo calore.

Abbracciami, invocami, lasciati andare.

Non abbiamo molto tempo, questa notte, forse domani. Approfittare, godere, ricordare!

Le gambe si aprono e si richiudono, le braccia che perdono la loro lotta con la gravità.

L’orecchio destro che si dona e la tua guancia sfuggente sul cuscino ormai sfatto.

No, non è facile, così poco tempo, per tutta questa voglia immane. Cerco di fissare i ricordi, ogni fotogramma, voglio che restino nel mio cervello, se non per sempre, il più a lungo possibile, non ci sono foto che possono rendere certi momenti.

Il tuo respiro sale, insieme alle tue contrazioni, le pupille si dilatano, ma mi fermo, non tutto, non subito.

Un dolce sali e scendi di emozioni, battiti e aspettative.

Speri, sì! Lo leggo nei tuoi occhi.

Ma comando io, questo gioco. Ne fai parte, anzi sei basilare, come farei senza?

Tu, il centro e lo scopo. Tu, per tanto tempo inseguita.

Tu, raggiunta, finalmente.

Ora riprendiamo!

Guardo di nuovo il tuo corpo. È così eccitante, spoglio.

No, non posso toglierti le manette, fidati, non esagero. Ho il senso della misura. Certo, la mia.

Per te è una nuova esperienza, non sai ancora se ti piacerà o meno, sai che la dovrai sopportare.

Non è pazzia. Sono lucido e determinato.

Cosa voglio? Scoprirti.

Dentro.

Portarti ai limiti, vedere cosa sai sopportare. E poi, andare oltre.

Può essere duro, ma so darti motivazioni a sufficienza.

Spero che bastino le dita di tua figlia.

Non gridare, aspetta. Lascia che asciughi questo sudore misto a sangue che ti sgorga dai pori, insieme all’odore della paura.


borges

Non c'è sesso senza sesso #3

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Le new entry non finiscono mai. Come gli esami e gli ornamenti in carne e silicone a Palazzo Grazioli. Oggi tocca alla presidentessa onoraria del puffi fan club italiano, la gentil Ponzia.

Mi sveglio con la sindrome del "butta-butta". Faccio colazione e scendo in cantina.

Attacco per prima cosa una cassetta di cartone sigillata con scritto sopra "scuola". Taglierina, zzzac! Sussidiario della elementari uguale butta-butta. Astuccio con mozziconi di matite colorate. Mancano il rosa e il nero uguale butta-butta. Grumo informe di gomme per cancellare, ormai incollate tra loro = butta-butta. Righello bianco dei Puffi di cm.30. Perfetto. Sembrerebbe nuovo se non fosse un pochino ingiallito. Lo prendo in mano, lo guardo e parte il film.

Ora di ricreazione. Marco entra in classe e mi poggia sul banco il righello.

"Grazie. L'ho preso in prestito senza chiedertelo"

"N'importa. Prego", rispondo. Gli sorrido quando lui già si era voltato per uscire di classe. Un classico.

Allungo la mano per prenderlo, ma parte un "NOOOOOOOO!" da fondo classe.

Fermo immagine.

Riparte il film al rallenty. Giro la testa verso Monica, l'urlatrice, con sguardo da "machecazz...?". Assembramento di compagne di classe intorno al mio banco e al mio righello. Il MIO righello coi Puffi!

Monica ManiAPugnoSuiFianchi: "Ma lo sai cosa ci fanno i maschi col righello? All'ora di ricreazione, per giunta".

Aggiunge, per gentilezza d'animo, "Sei un'idiota" con uno sbuffo. Il righello giace sul banco, con 5 paia di occhi femminili che lo scannerizzano e nessuna lo tocca.

"Mi sembra ci sia una strana impronta umida al cm.21". Sandra. Oggi verrebbe chiamata nerd, allora nessuno avrebbe capito il significato del termine. Tranne lei, ovviamente. Dieci laser puntati sul cm 21, quello dove c'è il Puffo con il fiore in mano. Ci mancava pure il presagio poetico.

"Maddai! Marco avrà avuto le mani sudate, oppure se l'era appena lavate" - questa sono io, che ho un innamoramento-venerazione per lui e SO, per amore e non altro, che anche quando gioca a calcetto per due ore di fila, con le Superga, non puzza, ha le mani sempre pulite e non usa il mio righello per misurarsi il pisello.

"Ma quali mani e mani..." - sempre Monica, la nostra professoressa di diseducazione sessuale.

"Scusa, Monica, ma se non è il sudore delle mani cosa potrebbe essere? Non mi dirai che i peni dei maschi sudano?" Rita e le sue arie da scienziata..."i peni dei maschi", sì, e le prostate delle donne.

Monica è in evidente imbarazzo, ma non molla. E' una dominante, vera femmina alfa.

"Certo che sudano. Si suda in tutto il corpo. Siete delle dementi" Monica si allontana da noi col "naso a punta" ed esce di scena, vincente. Siamo senza tutor. Finalmente.

Prende la parola Enrica, la più cazzona della classe, la mia migliore amica-nemica: "Se quella è una macchia di sudore allora puzza. Sudore uguale Puzza; è matematico"

Sto per piangere: Marco NON PUZZA MAI! Mi stanno facendo del male queste bastarde e lo sanno. Perfide!

"Prova ad annusarlo, ma senza toccarlo. Se puzza di pisello allora ce l'ha messo sopra". Stronzaaaa!

Anna, che ancora non ha detto una parola, guarda Enrica e: "Sei davvero una stronza!".

Come si permette di insultare la mia migliore amica? (Certo che è proprio un'età confusa l'adolescenza).

Campanella di fine ricreazione. Rientrano tutti in classe e le vipere strisciano velocemente verso i loro banchi. La mia compagna di banco fa la sua entrata al fianco di Marco; ridacchiano entrambi e io sto per morire. Prendono posto, continuando a ridacchiare, complici di chissà quali confidenze. Sono morta.

Lei acchiappa il mio righello, ci passa il dito sopra e se lo ficca in bocca "Avevi pane e nutella? te n'era caduta sul righello"

Non ce la faccio più, neanche da morta: "SEI UNA PUTTANA!!! Non solo ci ridi e scherzi insieme, ma gli lecchi anche il pisello!"

Quel righello mi è costato 3 giorni di sospensione "con obbligo di frequenza", però io e Marco ci mettemmo insieme qualche giorno dopo. Non gli ho mai misurato il pisello e, finchè ero innamorata di lui, non ha mai puzzato.

ponzia

Diario di un trasfertista

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Alexfor,graditissimo ospite, ci racconta il pendolarismo moderno. Il nuovo machesadafapecampà.

Musichina falsamente piacevole, stile new-age-post-moderno.

Oddio, che cazz’è?


La musichina lampeggia nel buio.


Chi diavolo sono io? Dove sono? Cos’è questa cosa che mi arriva alle orecchie?


La musichina lampeggiante e intermittente rivela l’esistenza di un cosiddetto smartphone markiato Nokia.


Chi sono io?...

Ah sì, sono Alessandro. Consulente, manager quarantadueenne, quasi separato, con l’hobb… Oh cazzo! L’aereo!

La realtà prende forma. La luce intermittente pennella via a tratti spessi il buio, rivelando oggetti che si conficcano nei miei occhi spenti. Un comodino. Una pila di libri. Una statuina del Buddha. Una abat-jour.

La accendo.

Chi sono io? Sono uno che non può permettersi un attimo di riposo supplementare. Devo alzarmi, sbarbarmi, docciarmi, piegarmi le camicie e farmi la valigia, indossare un abito da pinguino.

C’ho un aereo in cui devo infilarmi. Come tutte le cazzo di settimane.

Un sapore acido, tenue e scorbutico, mi storce la bocca, mentre violento i muscoli dorsali per issarmi dal letto. E’ il vino bevuto la sera prima per conciliarmi il sonno: si è rappreso nella cavità orale come sporco impossibile sulle piastrelle e attende una dose di Aquafresh o di Mastro Lindo che lo sciacqui via.

Sono le 5 del mattino, eppure ho i minuti contati.

C’è un sonno senza respiro che prosegue, mentre svolgo meccanicamente le azioni propedeutiche alla partenza. La certezza del web check in svolto la sera prima un poco mi rassicura.

Cravatte, boxer, calzini, camicie… c’è tutto. Via.

Una replica su Deejay mi costringe verso il parcheggio dell’aeroporto. Uno stronzo ignaro delle certezze del pendolare aeroportuale mi rallenta il passo.

Levati dal cazzo! Impara a vivere, prima di andare a prendere un aereo!”, penso fra un me assente ed un me dormiente.

Freddo. Trolley. Rumore di scarpe che sono le mie. Cielo buio di una notte mattutina. Ossa rotte e palpebre pesanti.

Sigarette, cappuccino decaffeinato – “devo dormire su quel cazzo di aereo”.

“Mi stampi la carta di imbarco, per favore”. “Bella signorinella”, chioso nella testa.

I signori della sicurezza mi appaiono tutti uguali. Una divisa anonima da guardia forestale, un
accento misto pugliese-bergamasco: “Carta d’imbarco, per favore”.

Eccola coglione. Fai bene a chiedermela. Uso passare in aeroporto al mattino presto per infrangere i vostri merdosi varchi di sicurezza come passatempo, solo per bullarmi con gli amici. Ma stavolta t’ho fregato”.

I pensieri cattivi di un mattino spento e già visto.

Mi chiederai di accenderti il computer, vero? Ma brutta testa di cazzo, cosa credi che ci metta nel computer, una bomba alla crema?

E invece, no. Stavolta passo indenne. Computer nella sua borsa, e via verso lo sciatto gate numero sarcazzo.

Gli spazi aperti dell’aeroporto rinnovato sono di un giallo spento. Mancano odori di qualunque tipo. Un coma sottile mi avvolge e mi sento uno zombie che cammina in cerca di un qualunque essere vivente.

Ma sono circondato solo da omini insulsi.

Possibile che neanche stamattina ci sia una fica con cui ammorbidirmi le occhiaie?

C’è una tipa, nascosta fra le pseudo-sedie di fronte al gate. Rientra esteticamente in una media quasi deprimente, ma in mezzo a quegli ominidi sembra Sharon Stone che si appresta ad accavallare le gambe in Basic Instinct.

Pullman. Aereo. Valigia e borsa computer nella cappelliera. Come al solito, sono salito fra i primi e mi dedico all’osservazione di quelli che entrano alla ricerca del loro giacilio.

Dai, fica, siediti di fianco a me

Ma come già sapevo, la fica mi oltrepassa. Del resto, io siedo come al solito al finestrino. Le fiche si siedono sempre al finestrino. Occupo uno dei loro posti.

Ed ecco l’ominide che si siede nel posto corridoio di fianco al mio.

Improvvisamente, sento le palpebre abbattersi al suolo e annerirsi del peso di mille tonnellate.

Massì, ma cosa me ne faccio della fica di fianco. Tanto non le rivolgerei parola. Sono timido, e soprattutto devo dormire

L’ominide apre una cosa da leggere. Non distinguo se è il Corriere della Sera o l’ultimo Ken Follett, ma che differenza fa?

Sfiora il mio gomito con il suo. E’ un contatto che mi disturba, ma mi dà anche un piccola e piacevole scossa elettrica.

Il finestrino non lo prendo per guardare di fuori. Lo prendo per appoggiarmi alla parete della carlinga.

Devo dormire. Io DEVO DORMIRE.

La mente viaggia veloce nella scatola cranica appoggiata alla parete bianca. La posizione è scomoda, i muscoli del collo si flettono in una posizione innaturale, sicuramente foriera di un temporaneo torcicollo.

Eppure, io devo dormire.

Attacca la litania dello steward:

“Ledis en gèntmen, ui udlài tu illustrèi samò desèifti echìmens o dis èrcraf…”

Ma come cazzo lo parlano, ‘sto inglese!

Devo dormire.

Aria calda e fredda insieme trasuda dagli sfiatatoi del piccolo Embraer che mi porta da Bergamo a Roma.

Occhi chiusi, buio del corpo vitreo illuminato dai riflessi bianchi e verdi oltre le palpebre. Rumore di movimenti del veicolo che cerca spazio per prendere il volo. Invoco le braccia di quel pirla vanesio di Morfeo, ma so che la pista è vicina.

Mi appare il ricordo di quando partivo qualche anno fa, per trasferte apparente simili. Ma non era il martedì che mi strappava verso il giovedì, era il lunedì che mi violentava verso il venerdì. Il sabato seguente, poi, sarebbe stato un triste riposo, e la domenica un’angosciante preparazione al lunedì successivo.

Era stato allora che avevo conosciuto il mostro nero. Quello che mi faceva vedere buio anche con gli occhi aperti, mi bloccava la gola, e mi faceva pregare, mentre l’aereo scaldava i motori, che cadesse, così che tutto finisse.

Ma oggi è diverso. Sono tranquillo. Riesco a notare le differenze, nel copione ripetuto. Registro e
annoto le tensioni ai polpacci. So che l’omino di fianco, seppur sempre omino, è diverso da quello della settimana precedente.

Dopo un rombo assordante si sale in un misto di azoto, ossigeno, ed altre sostanze gassose. Non lo vedo ma lo sento. Una leggera pressione alla bocca dello stomaco mi avverte. E pensare che un tempo era un macigno insopportabilmente terrorizzante.

Entro in un dormiveglia affannoso e faticoso. Sento annunci. Sogno hostess che passano di fianco offrendo caffè. Avverto un rimbalzo spesso di ruote elastiche sulla pista romana.

Cristo, già arrivato?

L’èrcraft si trasforma in un grosso autobus e trasporta noi passeggeri impotenti fino ad una certa
aerea di parcheggio. Io ho sempre gli occhi chiusi.

Una sensazione di forza e di spinta verso l’alto in una zona imbarazzante dei pantaloni si fa improvvisamente sentire. Per un attimo, percependo la presenza dell’ominide follettiano di fianco a me, mi sorge un dubbio:

Ehi, cazzo, mi vorrai mica far credere di essere ricchione?

Il dubbio svanisce in fretta. E’ solo una specie di riflesso condizionato, che suonati i 40 è bello sapere che ancora c’è, a quest’ora del mattino.

Prendo la valigia. Improvvisamente mi accorgo che c’è lui. Lui chi? Uno che conosco. Non posso reggere una qualunque conversazione. Devo evitarlo. Lo saluto con eleganza, e mi perdo nell’autobus che porta agli arrivi.

Mi ricordo di quando prendevo il treno, per andare all’università. Mi nascondevo dietro ai piloni sul marciapiede, terrorizzato all’idea di incontrare qualcuno con cui dover parlare. Strisciavo verso la zona dove sarebbe arrivato il culo del treno. Salivo di sottecchi. Mi sedevo nascosto, appoggiavo la testa e chiudevo sorridente gli occhi, felice di poter sprofondare nella scomodità della testiera del sedile.

Prendo l’auto a nolo. Gli impiegati mi sorridono lecchini.

Che cazzo succede a questi stronzi?”, mi chiedo.

“Ci può completare questo sondaggio? Ci servono fìdbec positivi”, mi dice l’impiegato paraculo.

Ah, ecco.

Lo schiavo che pulisce le auto è ancora più inspiegabilmente servile dell’impiegato. E dire che questi schiavi di solito li vedi solo quando l’auto la riconsegni, alla spasmodica ricerca di un graffio da addebitarti.

“Aspetti che le controllo se la macchina è a posto”

Ma sei impazzito? O forse ti sei reso conto che stanno per licenziarti, brutto negro?

E’ sicuramente la seconda che ho detto.

Parto. Esco dagli svincoli aeroportuali e mi inerpico in quelle stradine che solo a Roma ho visto. Sembra di essere in campagna, eppure sei a Roma. Sono strade che hanno nomi assurdi, Via della Pisana, dell’Imbrecciato, del Trullo, della Magliana, della Vignaccia, e altre amenità di questo genere.

In questa finta campagna cittadina crescono strane cose: arbusti incolti, stabili abbandonati, officine convenienti e, di quando in quando, negre di gomma.

Queste ultime attraggono la mia attenzione. Sembran finte, con il culo e le tette che si propagano irrealisticamente in direzioni opposte. E’ presto, sono solo le nove, eppure loro già sono montate di servizio.

Per un attimo un pensiero insensato mi attraversa gli emisferi.

E in una frazione di microsecondo già mi dico: “Ma sei scemo? Fra mezzora hai una riunione”.


alexfor

Non c'è sesso senza sesso #2

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Prosueguono le nostre opere di beneficenza in questo 2011. Oggi nel continuare la saga di "non c'è sesso senza sesso", alloggiamo e diamo sostegno ad un povero blogger semi sconosciuto Uomomordecane :D


Perchè io sono Tera

Mi chiamo Tera e sono così.





Regalo sogni agli uomini. Rappresento per loro tutto quello che non potranno mai avere davvero. Loro lo sanno, ma non gl'importa. 

Perchè io sono Tera.

L'essere una star mi permette di viaggiare, conoscere tante persone e soprattutto mantenere un tenore di vita decisamente superiore.
Viaggio in Aston Martin, brindo a Perrier Jouet Belle Epoque, volo su jet privati.

Ho conosciuto politici, personalità influenti, sono amica di produttori hollywoodiani, il mio nome è tra i più cliccati di Internet.
E tutto perchè Dio mi ha regalato la bellezza.
Il Signore mi ha dato qualcosa di speciale, come è evidente. Sono stata baciata dalla fortuna e davvero oggi non mi manca nulla.

Mi guardo attorno e trovo casalinghe sfatte a trent'anni, segretarie nevrotiche, donne delle pulizie con la schiena rotta, badanti disposte a cambiare pannoloni a vecchi sconosciuti. Può una donna distruggersi, umiliarsi in mansioni che con la femminilità non hanno nulla a che fare?
Mia madre faceva la cameriera in una bettola sulla statale. Tornava alle tre del mattino stravolta e crollava sul letto. Non la vedo da dodici anni, da quando ho lasciato quella topaia. Mia sorella? come lei: ha addirittura sposato un operaio di una fabbrica di scatole e a vederla pare avere dieci anni di più.
Certo, sono scelte di vita, ma io, la mia, non la cambierei con nessuna.

Che poi il lavoro non è neppure difficile: si tratta di tre-quattro ore sul set, tre volte a settimana.
Oddio, a volte ci sono i rientri e le ore di lavoro raddoppiano, oppure hai a che fare con scene di gruppo e qualcuno ti fa davvero male. Se non ci fosse qualche "aiutino" da tirare probabilmente non ce la farei. Vanessa, una mia collega, l'altro ieri ci ha lasciato le penne. L'avevamo avvertita: "stai esagerando. Un tiro ok ma così è troppo". L'abbiamo trovata riversa in bagno con gli occhi all'indietro. E il mese prima stessa cosa a Josepha. E Rachel. E l'altra, l'ucraina, come si chiamava...
Ma a me queste cose non capiteranno mai.

Perchè io sono Tera.

L'unica cosa che mi preoccupa davvero è la malattia: il nostro ambiente è certamente supercontrollato ma pochi giorni fa Brandon è stato trovato positivo all'HIV. Mi hanno detto però che è solo un falso allarme, una cattiveria messa in giro per non farlo lavorare. E comunque mi hanno spiegato che se prendi le giuste precauzioni non c'è nessun pericolo. E io prendo sempre la pillola.
L'anno scorso è morto Renee, sempre per AIDS. Ci avevo girato alcuni film, ma tanto tempo prima, quando stava ancora bene, si vedeva.

Oggi sono a casa: avrei dovuto girare una scena con quattro stalloni ma non mi sento bene: è un mese che vomito anche l'anima. Il mio produttore mi ha spiegato che è l'influenza che gira e mi ha anche mandato un bravissimo medico al posto del mio (pare non lavori più, mi hanno fatto sapere). Il nuovo mi ha visitato per bene e mi ha detto che è tutto ok. Tempo pochi giorni e riprenderò il lavoro di sempre.

Perchè io sono Tera.

Uomomordecane



Il Vecchio Fiammiferaio

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Post epifanico, di un terrone raccattato per strada a cui offriamo la nostra buona azione decennale.
Rullo di canne, ehhm di tamburi, ecco per la prima volta su SenzaVoglia ...... Orio.

C'era una volta, in una verde valle lontana lontana, un verde paesino tra i verdi monti. I suoi abitanti, già celebri per il loro verde senso di appartenenza alla verde comunità, si erano via via ingrigiti tanto che i ragazzini non molestavano i compagni di classe stranieri, i giovani mangiavano pizza e kebab e i vecchi guardavano persino le partite dell’Italia. Nessuno badava più ai colori, né di pelle né di camicia.

Una fredda sera d'inverno nel paese giunse un barbone, stremato da una lunga marcia. Il povero vecchio non trovò miglior riparo di una panchina nel parco dove, quasi congelato, pensò di accendere un fuoco con gli ultimi fiammiferi che gli erano rimasti. Il primo si spense subito per un colpo di vento. Stessa sorte toccò al secondo e al terzo, per via della pioggia che iniziava a cadere, e così via fino all'ultimo. Fu allora che il vecchio si fermò tremando per il freddo e per la paura di non farcela. Come si sarebbe scaldato, una volta spento l’ultimo fiammifero?

Mentre esitava osservando il fiammifero nella mano tremolante, incerto sul da farsi, avvertì alle spalle un forte colpo che lo fece rotolare. Riaperti gli occhi si trovò davanti un negro giovane e robusto, che gli versava addosso un liquido dall’odore forte e familiare.
- Perché lo fai? - gli chiese, incredulo. - Cosa ti ho fatto?
- Nulla -, rispose il negro.
- Ma allora perché?
- Sono un immigrato. Mi tocca fare il lavoro che voi non volete più fare. Non credere che a me faccia piacere.
E detto questo gli gettò addosso la sigaretta che stava fumando e si allontanò.
- Niente di personale, vecchio.

Il trambusto e le fiamme sparse dal barbone attirarono una gran folla di paesani. Fu chiamato il sindaco in persona. Non fu difficile ricostruire l’accaduto, nonostante il negro parlasse solo italiano: le parti si capirono grazie al linguaggio universale dei gesti. Poi tutti si guardarono commossi, il silenzio fu rotto e la folla andò verso il negro per complimentarsi ed abbracciarlo, con i più piccini che lo invitavano a mimare nuovamente il lancio della sigaretta.
- Ci hai aperto gli occhi. Quello che hai fatto sarà ricompensato con punti extra sul tuo permesso di soggiorno, gli disse il sindaco stringendogli la mano con gli occhi colmi di gratitudine.
Poi, con grande delicatezza e senza dire una parola, accesero delle torce di fortuna utilizzando le fiamme del barbone ancora alte ed iniziarono a inseguire il negro dopo avergli concesso qualche metro di vantaggio, con l'intenzione di impiccarlo al primo albero. Un negro che dà fuoco a un bianco: non si poteva certo lasciar correre, cazzo.

Ogni cosa finalmente era tornata verde.

E vissero tutti felici e contenti.

orio

Non c'è sesso senza sesso #1

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Ricomincia l'anno, ricominciano le rotture di scatole e quindi non può mancare un nuovo post di SV.
Iniziamo un nuovo lavoro collettivo e diamo l'onere dell'apertura a Silas Flannery.


La mescolanza è la chiave di tutto. Ecco perché ho scelto una città come Roma: non ti annoi mai. Facce diverse, diverse razze, diverse culture: è questa la specialità che rende ricco il mondo. O almeno questo ho pensato all'inizio, quando sono arrivato qui. Dalla provincia dell'impero sono arrivato: Raccuja, provincia di Messina, 1.200 abitanti scarsi nel bel mezzo del nulla, lontano da qualunque cosa sia divertente, da qualunque cosa valga la pena vedere.

Certo, sì, il parco dei Nebrodi. I suini neri, i salumi, qualche aquila ogni tanto: sai che palle? Qui, invece, tutto è sempre vario. Ti sei stufato dell'indiano? Oggi maghrebino. Anche quello: oggi Marocco, domani Tunisia, dopodomani Algeria. E poi si cambia: colombiano, messicano, slavo di qualche tipo. Non ti annoi mai, appunto: ogni giorno puoi fare finta di essere in un punto diverso del mondo.

Io non li capisco quelli della Lega: 'sti fascisti pretendono di preservare una razza pura che non esiste. "Aiutiamoli a casa loro", dicono, "l'Italia agli italiani" e così via: respingimenti, marce razziste, cose di questo genere. Per difendere cosa, poi? Gente che parla come Calderoli? Ignorantoni in camicia verde e col portafogli pieno, partite Iva che non vedono oltre il proprio naso e appestano l'Italia? Io, invece, vorrei che ci fossero meno italiani da queste parti: tutto sarebbe più semplice, più divertente… l'ho già detto più vario? Per questo mi sento di sinistra: per difendere la bellezza del mondo, per impedire che tutto sia omologato. "Radical chic" mi definirei, se avessi i soldi per frequentare i salotti: e allora, nell'attesa, mi diletto a contaminarmi. A cambiare Paese ogni giorno, pur rimanendo qui. "Multiculturalità", in qualche modo.

Oggi, ad esempio, ho scelto la Romania. Un must, di questi tempi: la Romania va di moda, soprattutto adesso che è entrata in Europa "si porta" solo la Romania. "La Romania è il nuovo nero", mi dico sempre. E poi diciamolo: le rumene sono carine. Molto carine. Beh, comunque: sono qui, al buio, a fumare l'ultima sigaretta. L'ultima prima di passare all'azione: l'aspetto qui, nell'androne, dove l'ho vista ieri. Eccola, arriva: un coltello alla gola, da dietro, una mano sulla bocca. Le alzo la gonna, lentamente, poi la penetro con violenza. Piange, e io mi eccito ancora di più: mi piace sentirla mia, strapparle le mutande mentre lei si sente impotente, imprimerle il mio marchio per sempre. Le mutande mi restano in mano: mutande rosse, di pizzo, da vera porca. Esco un istante prima di venire: non devo lasciare tracce, non devo farlo. Scappo.

Grida. Lo sento da lontano: la sua voce riempie l'androne, la strada buia, sbatte contro le finestre chiuse. Ecco: mi sembra di essere a Raccuja, quando vedo queste cose. Cazzo: c'è una donna che grida, c'è qualcuno in pericolo, e voi, borghesi ripieni di merda, cosa fate? Vi rintanate dentro i vostri buchi caldi, dentro le vostre case sicure, al riparo dalla paura e dal rischio? La Lega: ecco cosa meritate. Cos'è? Avete paura che qualcuno spari? C'è una donna che grida, cazzo, come minimo è uno stupro. La vostra Chiesa, il vostro Dio non vi impone di soccorrerla?

Ci penso io. La trovo nell'androne, in lacrime, seminuda. L'aiuto a rialzarsi, le chiedo cosa sia successo.
- È… è… stato… improvviso.
- Lo so, si calmi. L'ha visto?
- Alla… gola. Un coltello.
- Ma l'ha visto?
- No, non lo so. Da dietro, spuntato da dietro. Dio… mio…
Prendo il telefono.
- Pronto?
- …
- Sì, uno stupro, venite.
- …
- Via Genova, numero… 17.
- …
- No, è scappato.
- …
- Sì, io l'ho visto. Mi è sembrato un rumeno.
Riattacco, aspetto la polizia. Testimonio, mi metto a disposizione. Sono un cittadino modello, io.

Silas Flannery