Il suo profilo era quello delle palazzine disseminate disordinatamente sui fianchi delle colline della periferia più profonda, piatto e spigoloso come i prefabbricati che negli anni sessanta e settanta avevano popolato i terreni fangosi di Roma a decine. Quelle case a sette, otto piani, cadute come briciole ad un dio edile. Un dio che sublimava pilastri in camicia d’acciaio e blocchi di laterizio.
Roberta era così, bianca e spenta come intonaco asciutto.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Per ogni locandina gonfia di bolle d’aria che si allungava ai margini del suo campo visivo. Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. Roberta avrebbe aspettato di vederli in tv, così ripeteva “stronzate”.
Camminava seguendo in superficie il percorso della metropolitana, di stazione in stazione, senza soldi per salire sui vagoni. Cercando una ricarica di piccolo taglio per il cellulare. Poggiandosi ai pali sormontati da M luminose lungo una via Tuscolana gravida di megastore dal personale precario e botteghe sulla via del fallimento, mendicando una sigaretta per poi ripartire. Soffocata da ragazzine smorfiose che camminavano urlando al telefono, da uomini incapaci di togliere il casco per prelevare denaro agli sportelli automatici, da anziane allarmate e guardinghe soffocate nelle calze elastiche contenitive.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Di ogni libreria che non mostrasse in vetrina agende e lucine per le letture notturne. Del banchetto che raccoglieva firme per un referendum ambientalista.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.
Due minuscoli seni che si riducevano a capezzoli puntuti sagomavano la sua maglia sbiadita. Seni da accarezzare con leggerezza, come soffiando coi gesti. La pelle dei polsi tirata sulle ossa come carne sottovuoto. Tantissime costole, un’infinità a vederle così, sporgenti e visibili, come una maschera tribale fatta di ossa e pelle e fuochi artificiali di lentiggini.
Si era plasmata sulla forma di quella città sovrappopolata di case vuote e centri commerciali pieni, e come questa era affamata di immagini ritoccate e cibo veloce, da consumare e sprecare. Tutte le volte che fosse stato possibile. Impulsi visivi e olfattivi da spremere, messaggi da recepire.
Era vogliosa di carboidrati complessi e grassi saturi, e non aveva soldi per mangiare che non fossero quelli che rimanevano della pensione del nonno una volta pagato l’affitto o quelli che racimolava saltuariamente.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Lo diceva dei quotidiani, dei negozietti di belle arti, degli ingressi tristi e desolati dei teatri, delle code interminabili per le prime cinematografiche e dei nottambuli che attendevano fuori dalle librerie i nuovi romanzi di Harry Potter.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.
Come Roma, Roberta era vorace e assopita, in attesa che le cose migliorassero ma senza mai crederlo veramente possibile. I suoi problemi attenevano alla realtà, questo sapeva. Cambiare lavoro agognando qualche spicciolo in più per ritrovarsi poi con sempre meno soldi, questo faceva. Puliva le scale degli sterminati condomini di Roma sud e sud-est che avevano rinunciato alla portineria, svuotava i cestini negli uffici che preferivano qualcuno che lavorasse in nero - troppo avidi per rivolgersi a una ditta e troppo terrorizzati per versare dei contributi. Cento, centoventi euro ogni settimana. Quello che non andava per sopravvivere finiva in traffico telefonico e mollettine per i capelli.
I risultati delle sue somme erano differenze, tutto ciò che porta ricchezza intellettuale comportava povertà materiale. Il proprio discernimento lo maturava gomito a gomito con migliaia di estranei in giro per la metropoli ingorda, notando le diversità, assorbendo l’altrui diffidenza. La città sostituiva al naturale odio degli individui una sovrastruttura mentale, una parvenza di autorevolezza, una costruita giustificazione. La comunicazione si riduceva ad elettricità statica, a tumori generati dalle onde elettromagnetiche. Non capiva come in una famiglia ci si potesse sentire soli, non capiva come si potesse ridurre le proprie ore alla contemplazione di qualcosa – immagini o storie, palazzi o nuvole. Provava pena per i malnutriti africani dalle pance gonfie, disgusto per i mocciosi dai piedi nudi attaccati al collo delle madri agli angoli delle strade.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Di ogni notte bianca o festival o piazza gremita di gente festante, di ogni restauro interminabile, dei musei aperti la notte, delle riviste patinate da dodici euro ciascuna, del cibo biologico che costa il doppio dell’altro, dei viaggi senza spiagge da occupare.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.
Sull’asfalto, sotto l’impronta di una suola di gomma, un foglietto. Un biglietto per la metropolitana, un biglietto valido. Quelle fortune delle quali nutrirsi, l’entusiasmo degli eventi inattesi.
Roberta attraversava i tunnel sotterranei aggrediti dall’aria che si spostava ferocemente. Ai margini del suo campo visivo si allungavano pubblicità di concerti e di film in uscita.
Stronzate.
gabbbbro
Mi piace molto. Bravo gab.
tnx :)
Sottoscrivo il commento di Silas!
Se avete finito , il lavandino per sciacquarsi la bocca è in fondo a destra (ninja)
Non avevo dubbi...ogni volta un nuovo schiaffone.
proprio bello,
complimenti