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Secondo racconto della trilogia. La parte sud a quel terrone di borges

Dopo l’ultimo giro di chiave, mi piaceva mettermi in macchina e andare per la città.
Era come scambiarsi il testimone. Io che finivo la notte nel mio locale, davo il cambio a tutti quelli che vanno ad aprire, fabbriche, magazzini, uffici. Quelli che vanno a servire gli altri.
Quasi tutti meridionali, gente con poca scuola o con poca inventiva. Braccia attaccate ad un corpo che sembra un peccato non approfittarsene.
Passavo dal lingotto e mi ricordavo che iniziai là, quando ancora era la luce di Torino, il sol degli emigrati. Un posto fisso, per pagarsi un letto, un pisciatoio in comune ,due pasti e mandare il resto a casa.
Vita di merda. Non era per me, io volevo i soldi, volevo riuscire, tirarmi fuori e mettercelo in culo a chi mi sputava la mattina e mi salutava con un “terrone”.
Volevo prendere il caffè a Piazza S.Carlo ed essere salutato con un’alzata di cappello.
Volevo che i “fanculo” che pensavano gli rimanessero in gola e fossero costretti solo ai loro sorrisi ipocriti e gentili, segno di sottomissione all’unica legge universalmente accettata: quella dei soldi.
Agli inizi fu veramente pesante, la fame era così amica che si spaventava a lasciarmi solo.
Ma i miei risparmi aumentavano ad ogni buco in più nella cintura.
Mi ricordo la felicità quando riuscii a rilevare il bar di quel quartiere di merda dove vivevo. Un bancone per i caffè, una specchiera gigante con i liquori, le grappe ed i whisky più scadenti, due tavolini di formica, un telefono pubblico a gettoni ed un cesso sempre intasato.
Non sembrava granchè, ma intanto avevo chiuso con la catena di montaggio alla mattina ed il muratore in nero al pomeriggio. Caffè allungati con grappa allungata, whisky che avrebbe retto anche il mio cane e soldi che continuavano a salire. Certo ancora puzzavo di sud, di sottomissione, di treni sudici ogni estate e di troppa sensibilità al freddo. Per me era una spinta a non fermarmi, di notte sognavo sempre il cappotto , la giulietta ed il mio caffè preso a Piazza S.Carlo.
A forza di risparmi, mi si presentò un’altra occasione, rilevare un dancing. Apertura ore 22:00, chiusura 05:00, l’angolo per il complesso, pista da ballo, 12 tavoli e solo superalcolici.
Ottimo affare, certo invitare ogni tanto qualche amica a sedersi ai tavoli per intrattenere la clientela mi aiutò. Ma non fatevi venire in testa strane idee, erano solo incontri , le conoscenze approfondite semmai si facevano altrove. Questo era solo un incentivo.
Si certo ancora non era la clientela che desideravo, veniva soprattutto gente dalle periferie e qualche piemontese dai paesotti. Nessun torinese , ancora non ero riuscito ad incontrare nessun torinese.
Poi capitò qualche strana telefonata e per via delle mie amiche trovarono la scusa per farmi chiudere un po’..
Non potevo resistere a lungo e cercai aiuto in vecchie conoscenze, non mi piacevano certo, solo perchè mi ricordavano da dove venivo, perchè mi parlavano sempre di rispetto, di onore, di radici. A me non fotteva una minchia delle radici, io avevo la testa a ripulirmi e al mio cappotto mentre camminavo a Piazza S.Carlo.
Comunque mi diedero un aiutino , che ripagai con forti interessi, e anche qualche dritta , così ogni tanto le mie amiche andavano via gratis con qualche uniforme che si presentava di notte.
Prima cominciarono appuntati ad aprire la via, poi marescialli ed ogni tanto qualche stelletta.
Ebbi finalmente l’occasione, di offrire da bere e scambiare quattro parole con qualcuno che contava.
Presto le parole divennero otto, il locale si fece un nome e qualche sabato si vedeva anche bella gente, non i soliti morti di fame.
Fu un bel periodo, il livello delle mie amiche si alzò, quello della clientela pure e nel giro dei locali alla moda ebbi il mio momento di grande successo. Riuscì a cogliere il momento e fare il salto di qualità. Sempre con questo diavolo interno che mi rodeva, l’accettazione da un lato e il dimenticare la mia provenienza dall’altro.
Grazie ad un consiglio “generoso”, riuscii a rilevare un locale in centro. Stavolta si andava ad un livello superiore, ristorante, con privè e sala da ballo selezionata. Non ero più io che cercavo i clienti, ma loro che che cercavano di entrare nel mio locale.
Poi , il consiglio lo ripagai, mi sembrava normale, anche perchè , primo ormai era una moda dilagante e secondo perchè non mi sembrava neanche vero di dover fare così poco.
Ad amici selezionati, quando andavano nei privè, facevo arrivare delle fiale con una polverina bianca, all’inizio in omaggio gratuito e poi con prezzi speciali per amici.
Eccolo arrivato il mio momento di gloria e di successo! Quante persone insospettabili passavano e quante cominciarono a salutarmi a rendermi visibile anche alla luce del sole.
Presi il mio caffè a Piazza S.Carlo. Posteggiai la mia giulietta e sfoggiai il mio cappotto di cammello. E anche se non potevo di certo pensare di andare a comprare casa sulle colline, per un attimo, uno solo, un fottutissimo attimo, non mi sentii più inferiore, non mi sentii più ospite indesiderato.
Non so se diede fastidio, se cambiò il vento, se è solo come vanno le cose. So che un’alba tutto diventò triste, freddo e con un forte sapore di merda. Sequestrarono il locale e mi accusarono di spaccio di cocaina.
Finì la mia corsa, fini il mio sogno e furono ristabilite le gerarchie. Ballai per un tempo, ma la musica l’hanno sempre diretta gli altri. Illusione di essere accettato, illusione di non essere solo un terrone.

borges

Ma fammi capire: la cassa di Forst ti serve perché vuoi aprirne un altro?

In verità? Bevo per dimenticare.

Prezzi speciali per gli amici? Ma è concorrenza sleale...

Proprio bravo, niente da dire.
(Chi avrebbe mai sospettato che un terrone sapesse scrivere così?)

Pensa ieri ancora facevo le astine!!! :D (ninja)

Bello.

Grazie a te e a Richi ho capito che a Torino non si fa altro che andare per locali.

E fatevela una cena in famiglia!

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