De Lapaleaks

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Tutti abbiamo letto le sconvolgenti rivelazioni di Wikileaks, Berlusconi è uno dedito a feste selvagge, Putin è un maschio dominante, Sarkozy è un re nudo, a Gheddafi gli piacciono le infermiere svedesi. Presi dalla curiosità, siamo andati a leggere tutti i file e abbiamo scoperto che...

I file di Wikileaks dicono che Babbo natale non esiste.
I file di Wikileaks dicono che sta arrivando l'inverno.
I file di Wikileaks dicono che il Papa risiede in Vaticano.
I file di Wikileaks dicono che c'è un negro alla Casa Bianca.
I file di Wikileaks dicono che avete votato pezzi di merda.
I file di Wikileaks dicono che la terra gira intorno al sole.
I file di Wikileaks dicono che una rondine non fa primavera.
I file di Wikileaks dicono che meglio cento giorni da leone che uno da pecora.
I file di Wikileaks dicono che il caffè con il sale, servito alle sei del mattino, non è un bello scherzo da fare alla tua compagna.
I file di Wikileaks dicono che Fede se le meritava.
I file di Wikileaks dicono che pasteggiare a Coca Cola è da sfigati.
I file di Wikileaks dicono che Boldi e DeSica non avrebbero mai dovuto litigare almeno, di stupidi ed irritanti film natalizi del cazzo, adesso ne avremmo solo uno.
I file di Wikileaks dicono che le dimensioni non contano, ma avercelo lungo è meglio che avercelo corto.
I file di Wikileaks dicono che inutile avercelo lungo e grosso se sei uno sfigato.
I file di Wikileaks dicono che se ce l'hai lungo e grosso sei tutto fuorchè uno sfigato.
I file di Wikileaks dicono che Gigi D'alessio fa cagare.
I file di Wikileaks dicono che Marco Carta fa cagare.
I file di Wikileaks dicono che "ma chi cazzo è Marco Carta?"
I file di Wikileaks dicono che non si può fare il bagno se non passano tre ore dal pasto.
I file di WIkileaks dicono che bisogna mettere la maglia della salute.
I file di Wikileaks dicono che appena lavi la macchina pioverà.
I file di Wikileaks dicono che hai la ragazza, ma ti tromberesti l'amica.
I file di Wikileaks dicono che Bersani può far vincere il PD. Dai scherzavamo, questo non lo dicono neanche loro.

Oggensioni #4

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Oggi il nostro oggensore, ci parla di un oggetto che tutti , prima o poi nella vita, terremo in mano



La Brugola


Quando ero bambino avevo la passione per le collezioni: figurine, francobolli, pacchetti di sigarette, scatole di fiammiferi, protesi dentarie. Collezionavo di tutto con passione e perspicacia, documentandomi sull’origine e le peculiarità di ogni esemplare e partecipando con enfasi ad ogni possibile raduno immaginario.
Mio figlio, che ha otto anni, non dimostra questa mia stessa tendenza, nonostante lo incoraggi di continuo ed abbia acquistato un’arma da fuoco proprio per incoraggiarlo in modo convincente. Il suo armadio è pieno di oggetti che io ho collezionato per lui mentre perdeva tempo con i libri, lo sport e le ragazze, ma ciò non vuol dire che io sia un collezionista a tempo pieno. Per quello dovrei versarmi i contributi per la pensione da collezionista.
Recentemente, riordinando un cassetto che uso per gli attrezzi, le batterie, la cancelleria, le lampadine, le riviste e gli avanzi della cena, ho constatato che a forza di comprare mobili da Ikea ho messo su una collezione niente male di quelle piccole brugole che ti danno con ogni pezzo di arredamento, cosa che ha reso felice mio figlio perché finalmente quel cassetto si chiude.
In Italia la brugola ha questo nome perché il primo a produrla fu l’ingegner Brugola. Lo stesso ingegner Brugola che sposò la dottoressa Reggipetto, inventrice del catetere endovenoso.
La caratteristica della brugola è di avere una sezione esagonale, da qualche parte. Le brugole si riconoscono anche per la loro tipica forma ad “L” o a “dito artritico”.
Le sole brugole che ho provato sono quelle di Ikea, e sono le sole che mi sento di consigliarvi. E posso aggiungere che è del tutto falso il luogo comune secondo il quale tutto quello che compri da Ikea devi costruirtelo da solo, perché le brugole le ho trovate già montate.
Il costo è difficilmente calcolabile in quanto le brugole di Ikea sono in omaggio con i mobili che acquisti, ciò non toglie che incidano in qualche misura sul prezzo finale. Comunque, se proprio vi interessa questo dato, potete farvi ricoverare.
Le brugole di Ikea sono ideali se volete sperimentare come un esagono possa facilmente trasformarsi in un cerchio.
Nel 2010, Lisa Nur Sultan ed Emiliano Masala hanno scritto e messo in scena uno spettacolo intitolato proprio “Brugole”, di cui non sarei mai venuto a conoscenza se non fosse stato per la cassettiera Malmö, alla quale era allegato.

gabbbbro

Incroci

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Un fulminante Mu Ho, ci ricorda che quando comprate le all star dovete scegliere bene il gusto.

Sono affacciato sul balcone, guardo la vicina che si spoglia e mastico una scarpa allstar. La vicina ha lasciato che la gonna le scivoli sulle caviglie. Porta autoreggenti. La gomma puzza di piede, e faccio una fatica boia per masticarla. Fa pure un freddo cane. Lei scioglie i suoi capelli biondi sulla schiena e inizia a slacciarsi la camicetta. Io mastico con foga mentre le mie dita dei piedi incominciano a diventare blu. Ci saranno sì e no 2 gradi.
A un certo punto rimane in autoreggenti e reggiseno. Si sfila gli slip. Avrei una erezione se non fossi in pratica congelato. Riesco a staccare un pezzo di gomma della suola e lo sputo di sotto. Mi attacco alla tela della caviglia con voluttà. Da qui non potrei vederla meglio, e mentre lo penso lei alza una gamba e la poggia su una sedia per sfilarsi un'autoreggente. Alza la gamba giusta. La tela ha il sapore di plastica bruciata. Mastico. Mastico. Lei ripete il gesto con l'altra gamba. Non ho mai visto un corpo così perfetto. Sputo un pezzo di tela. Le mani mi fanno male. Incomincia a nevicare.
A questo punto abbassa leggermente il capo, facendo cadere in avanti la chioma bionda leggermente ondulata, e porta le mani dietro la schiena per slacciare il reggiseno. Ad occhio penso si tratti di una coppa F. Vorrei essere lì. O almeno al caldo. Un altro pezzo di tela viene via. Lo sputo ma per il freddo mi cade sui piedi. Tremo come una foglia percossa dal vento. Il reggipetto libera due meravigliosi e abbondanti seni la cui vista basterebbe da sola ad avere un orgasmo potente.
Addento la punta della scarpa di gomma con foga. Lei si gira verso la finestra. Solo ora si deve essere ricordata che le tende sono aperte. E mi vede. Sul balcone, nudo, con una scarpa allstar puzzolente che mi pende dalla bocca. Vedo la sua bocca aprirsi e cacciare un urlo. Da dietro le mie spalle si apre la portafinestra e una voce mi dice: "Puoi rientrare amore, mio marito è uscito di nuovo".

Mu Ho

Oggensioni #3

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Ritorna gabbbbro con le sue oggensioni. Stavolta dopo avere risolto dei problemi in questura, causati dal suo ferreo attaccamento al lavoro e alla prova sul campo.

Le mutandine da donna

Ricevo spesso richieste di recensioni da parte di riviste di settore: il bollettino odontoiatrico Ponti senza Punti, il magazine sull’imballaggio A Tutto Pluriball e la testata di ornitologia l’Osservatore Romano, per dirne alcuni. Ma quando mi hanno contattato da Desabillè per recensire della biancheria intima femminile sono rimasto senza parole: perché non mi ero abbonato prima a quella rivista?
Così ho chiesto a mia moglie di scrivere per mio conto la recensione di un paio di mutandine (sospettavo da tempo che anche lei ne facesse uso). Purtroppo non è stata molto collaborativa e mi ha consigliato di indossarne un paio io stesso per farmi un’idea, oppure di fare un’indagine in luoghi molto frequentati dal genere femminile come palestre, fabbriche e sotto alle scrivanie. Ho fatto, perciò, un tentativo in una scuola elementare, ma la scelta ha comportato soltanto una serie di conseguenze spiacevoli che illustrerò presto nel dettaglio recensendo i seggiolini di plastica delle questure.
Ho dunque pensato di fare un copia e incolla da qualche sito specializzato: tentativo inutile perché la biancheria rimaneva indosso alle modelle per troppo poco tempo.
Non sapevo come fare, l’unico aspetto tecnico che conoscevo delle mutande è che si tratta di un nome difettivo, come le forbici, i pantaloni e le esequie. E quelli di Desabillè non sembravano affatto interessati alla cosa.
Ho dovuto quindi rinunciare a scrivere l’articolo, rimediando in compenso numerosi cataloghi.
Allora non potevo prevedere che, di lì a due settimane, mi sarei ritrovato, per via di un’inspiegabile concatenazione di eventi, ad indossare mutandine da donna. Così ho scritto una recensione che ho inviato alla rivista Desabillè (senza accorgermi peraltro che si trattava di un’altra rivista di nome Desabillè, un trimestrale dedicato agli esibizionisti dei parchi gioco) e della quale riporto una sintesi
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Ne hanno fatta di strada le mutandine da quando era vietato nominarle e venivano chiamate tubi della decenza. Che siano slip, tanga, perizoma, culotte o brasiliane, le mutandine da donna le chiamiamo sempre mutandine, anche se a indossarle è un donnone di centotrenta chili.
Ho provato per voi un perizoma gonnellino rosa shocking con inserti in pizzo nero ed orli increspati, consigliato per ottenere un effetto vedo non vedo e, in caso di taglie più generose, per travestirsi da tenda di broccato. Lo produce la ditta Leg Avenue di Los Angeles, abbinato ad un reggiseno che dicono sia molto utile quando hai un seno. La coppia è venduta in Italia a 38 euro, mentre separati costano di più perché ci sono le spese legali per il divorzio.
La qualità dei tessuti e delle cuciture è notevole ma, una volta indosso, il risultato è diverso da quello che si vede nella foto sulla confezione (e vi assicuro che sono il sosia perfetto della modella). Così mi sono messo in contatto con la modella stessa per un confronto di opinioni e, dopo decine di telefonate, ha confermato le mie stesse impressioni. Nonostante i suoi avvocati sostengano un’altra versione.
Gli elementi di questo perizoma concorrono tutti a farne un indumento vistoso ed elaborato, che mal si accompagna a reggicalze e stringivita. Consiglio piuttosto di abbinarlo ad autoreggenti, guanti in seta di media lunghezza e donne.

gabbbbro

Parlaci di te

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Sono molte le cose che non posso permettermi, ma non ne faccio un dramma. In fondo sono squattrinato con la camicia.

Logico che d'inverno preferirei essere squattrinato con il giubbotto o, avendo solo una camicia, potermi almeno trasferire alle Hawaii.

Che è una di quelle cose che non posso permettermi, ma non ne faccio un dramma, casomai una commedia. Il vero dramma sarebbe essere squattrinati con la camicia, di forza.

Che poi essere costretti a fare certe cose con la forza non sempre è un dramma, spesso è pornografia, specie se la camicia ti obbligano a toglierla. E non si è mai visto un film porno drammatico.
Quelle non sono mica lacrime.

Ma poi in un film porno drammatico, come distingueresti i singhiozzi dei pianti da quelli di piacere? E da quelli di quando ti è andato qualcosa di traverso?

Senza contare quelli che vengono dagli schiaffi, potrebbe anche trattarsi di un sadomaso. Mentre se fossero singhiozzi per un cuore spezzato, allora significherebbe che l'intervento non è riuscito, ma cerchiamo di essere sinceri: ne abbiamo tutti le palle piene di questi medical drama.

Il vero dramma per me è un altro: non riesco mai a tenere il filo del discorso. Dall'altra parte tirano sempre più forte.

Quindi finisce sempre così, come adesso, che per rispondere ad una semplice richiesta formale mi rovino un colloquio di lavoro.

Ma non è il caso di farne un dramma, non era neanche un posto da attore. 


richi selva

Torino #Fuori

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chiudiamo il trittico, con la visione da fuori di Mu Ho.

A Torino ci sono nato. E ci ho vissuto. Poi la città se n'è andata a 9000 km di distanza e mi sono ritrovato a Tokyo. Non so come sia successo. Probabilmente sono riuscito a stare fermo mentre la terra ruotava. A Torino le cose spesso stanno ferme anche se la terra ruota. Mi ricordo che quando andavo a lavoro, sul cavalcavia di Corso Mortara, le macchine si fermavano lì, in coda. La terra continuava a ruotare, e solo grazie alla sua rotazione potevi raggiungere la tua destinazione. Ma alcuni rimanevano lì fermi per troppo tempo e si ritrovavano poi magari in medio oriente, o a Giava. Dipendeva molto dallo stato dalla loro pazienza e dai venti. Ora il cavalcavia non c'è più, abbattuto per le olimpiadi invernali del 2006. Ho ancora uno zio rimasto intrappolato a Giava per questa ragione.
Da emigrato posso dire che Torino non ha l'appeal di Milano, le rovine di Roma, l'arte di Firenze, la muffa di Venezia, ma possiede lo stesso un suo proprio fascino. Ricorda per la precisione l'indiano di "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Se le cose si metteranno male so che riuscirà ad aprirsi una via di fuga dall'Italia sollevando un enorme torello.

Ormai ci torno solo in vacanza. Vacanze a Torino, anche se la cosa può apparire paradossale. A Torino ho lasciato molte cose, e l'unica che mi sono portato dietro perché non conviene tenerla lì è la residenza. Tra le cose lasciate senza troppi patemi ci sono invece i ricordi d'infanzia. Li ho lasciati laggiù così non mi tormentano più di tanto. Torino si è fatta la fama di città grigia e triste, ma solo in Italia. All'estero non sanno che esiste. Per spiegarlo bisogna sempre dire che è vicino a Milano. Il che è una specie di tortura per la città sabauda, che per Milano ha davvero poca simpatia. Ci torno ogni anno, e ne apprezzo la pianta quadrangolare da salotto di mia madre, la cortesia piemontese dei venditori di Kebab, il sessantenne tatuato dalla testa ai piedi in Corso Belgio, l'odore delle caldarroste nell’autunno freddo come l’inverno.

A volte immagino se grandi film fossero ambientati a Torino. Per un pugno di dollari certo avrebbe avuto un altro impatto. Sparatorie tra le colline innevate, un tizio che si aggira in sombrero vicino al Lingotto (si capisce da subito che non è Veltroni), una colonna sonora da urlo se riesci a sentirla sopra il rumore del traffico. Credo ci sia una buona ragione perché la gran parte dei western non siano ambientati a Torino. Forse è Torino che bisognerebbe smettere di ambientare a Torino. Bisognerebbe ambientarla al mare, magari sulla costiera amalfitana. Con i banchetti sul lungomare e in spiaggia che ti vendono bagna cauda. Il gelato al fritto misto. Il cioccolato alle vongole. Torino marittima. Col Dio Po che con gran scherno dei Celti Padani si immette nello Ionio, dalla sua foce in Lazio. Del resto Torino è la terza città meridionale d’Italia. Tanto vale che stia fisicamente là. Almeno le ferie le farei al mare, come si deve.

Mu Ho

Torino #Sud

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Secondo racconto della trilogia. La parte sud a quel terrone di borges

Dopo l’ultimo giro di chiave, mi piaceva mettermi in macchina e andare per la città.
Era come scambiarsi il testimone. Io che finivo la notte nel mio locale, davo il cambio a tutti quelli che vanno ad aprire, fabbriche, magazzini, uffici. Quelli che vanno a servire gli altri.
Quasi tutti meridionali, gente con poca scuola o con poca inventiva. Braccia attaccate ad un corpo che sembra un peccato non approfittarsene.
Passavo dal lingotto e mi ricordavo che iniziai là, quando ancora era la luce di Torino, il sol degli emigrati. Un posto fisso, per pagarsi un letto, un pisciatoio in comune ,due pasti e mandare il resto a casa.
Vita di merda. Non era per me, io volevo i soldi, volevo riuscire, tirarmi fuori e mettercelo in culo a chi mi sputava la mattina e mi salutava con un “terrone”.
Volevo prendere il caffè a Piazza S.Carlo ed essere salutato con un’alzata di cappello.
Volevo che i “fanculo” che pensavano gli rimanessero in gola e fossero costretti solo ai loro sorrisi ipocriti e gentili, segno di sottomissione all’unica legge universalmente accettata: quella dei soldi.
Agli inizi fu veramente pesante, la fame era così amica che si spaventava a lasciarmi solo.
Ma i miei risparmi aumentavano ad ogni buco in più nella cintura.
Mi ricordo la felicità quando riuscii a rilevare il bar di quel quartiere di merda dove vivevo. Un bancone per i caffè, una specchiera gigante con i liquori, le grappe ed i whisky più scadenti, due tavolini di formica, un telefono pubblico a gettoni ed un cesso sempre intasato.
Non sembrava granchè, ma intanto avevo chiuso con la catena di montaggio alla mattina ed il muratore in nero al pomeriggio. Caffè allungati con grappa allungata, whisky che avrebbe retto anche il mio cane e soldi che continuavano a salire. Certo ancora puzzavo di sud, di sottomissione, di treni sudici ogni estate e di troppa sensibilità al freddo. Per me era una spinta a non fermarmi, di notte sognavo sempre il cappotto , la giulietta ed il mio caffè preso a Piazza S.Carlo.
A forza di risparmi, mi si presentò un’altra occasione, rilevare un dancing. Apertura ore 22:00, chiusura 05:00, l’angolo per il complesso, pista da ballo, 12 tavoli e solo superalcolici.
Ottimo affare, certo invitare ogni tanto qualche amica a sedersi ai tavoli per intrattenere la clientela mi aiutò. Ma non fatevi venire in testa strane idee, erano solo incontri , le conoscenze approfondite semmai si facevano altrove. Questo era solo un incentivo.
Si certo ancora non era la clientela che desideravo, veniva soprattutto gente dalle periferie e qualche piemontese dai paesotti. Nessun torinese , ancora non ero riuscito ad incontrare nessun torinese.
Poi capitò qualche strana telefonata e per via delle mie amiche trovarono la scusa per farmi chiudere un po’..
Non potevo resistere a lungo e cercai aiuto in vecchie conoscenze, non mi piacevano certo, solo perchè mi ricordavano da dove venivo, perchè mi parlavano sempre di rispetto, di onore, di radici. A me non fotteva una minchia delle radici, io avevo la testa a ripulirmi e al mio cappotto mentre camminavo a Piazza S.Carlo.
Comunque mi diedero un aiutino , che ripagai con forti interessi, e anche qualche dritta , così ogni tanto le mie amiche andavano via gratis con qualche uniforme che si presentava di notte.
Prima cominciarono appuntati ad aprire la via, poi marescialli ed ogni tanto qualche stelletta.
Ebbi finalmente l’occasione, di offrire da bere e scambiare quattro parole con qualcuno che contava.
Presto le parole divennero otto, il locale si fece un nome e qualche sabato si vedeva anche bella gente, non i soliti morti di fame.
Fu un bel periodo, il livello delle mie amiche si alzò, quello della clientela pure e nel giro dei locali alla moda ebbi il mio momento di grande successo. Riuscì a cogliere il momento e fare il salto di qualità. Sempre con questo diavolo interno che mi rodeva, l’accettazione da un lato e il dimenticare la mia provenienza dall’altro.
Grazie ad un consiglio “generoso”, riuscii a rilevare un locale in centro. Stavolta si andava ad un livello superiore, ristorante, con privè e sala da ballo selezionata. Non ero più io che cercavo i clienti, ma loro che che cercavano di entrare nel mio locale.
Poi , il consiglio lo ripagai, mi sembrava normale, anche perchè , primo ormai era una moda dilagante e secondo perchè non mi sembrava neanche vero di dover fare così poco.
Ad amici selezionati, quando andavano nei privè, facevo arrivare delle fiale con una polverina bianca, all’inizio in omaggio gratuito e poi con prezzi speciali per amici.
Eccolo arrivato il mio momento di gloria e di successo! Quante persone insospettabili passavano e quante cominciarono a salutarmi a rendermi visibile anche alla luce del sole.
Presi il mio caffè a Piazza S.Carlo. Posteggiai la mia giulietta e sfoggiai il mio cappotto di cammello. E anche se non potevo di certo pensare di andare a comprare casa sulle colline, per un attimo, uno solo, un fottutissimo attimo, non mi sentii più inferiore, non mi sentii più ospite indesiderato.
Non so se diede fastidio, se cambiò il vento, se è solo come vanno le cose. So che un’alba tutto diventò triste, freddo e con un forte sapore di merda. Sequestrarono il locale e mi accusarono di spaccio di cocaina.
Finì la mia corsa, fini il mio sogno e furono ristabilite le gerarchie. Ballai per un tempo, ma la musica l’hanno sempre diretta gli altri. Illusione di essere accettato, illusione di non essere solo un terrone.

borges

Torino. #Nord

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Questa settimana, la dedichiamo a Torino. 3 autori, 3 punti di vista geografici, 3 storie. Torino come luogo geografico, ma anche simbolico. Inizia Richi Selva

Questa faccenda della “pianta quadra” gli aveva sempre dato fastidio. Pareva che girare a Torino fosse un gioco da ragazzi, che fosse impossibile perdersi o non riuscire a trovare una via o un locale. “Perché a Torino c’è la pianta quadra”.
Ecco, lui invece per andare in città doveva sempre avere qualcuno al suo fianco, a fargli da navigatore. Meglio ancora se era questo qualcuno a prendere la macchina.
Era sempre stato così, fin dalle prime volte che scendeva giù dai monti alla ricerca di serate metropolitane che spezzassero la monotonia della più imboscata provincia. Imboscata per modo di dire, erano solo una quarantina di chilometri, ma a lui parevano un oceano, e Torino l’America.

Fatto sta che memorizzare la viabilità cittadina gli era sempre stato difficile, ma c’è da dire che il problema lo caratterizzava in ogni dove, anche per le strade che faceva tutti i giorni, quelle che partivano dal suo paese. Ne imbroccava di sbagliate, anche lì. Talvolta si perdeva pure in casa, faceva per andare in bagno e si trovava in balcone. Era convinto di avere una sorta di “malattia” rarissima che colpiva il senso di orientamento. Ma non azzardava ad esporre la teoria con nessuno dei suoi amici, avrebbero potuto dirgli che i deficienti non sono poi così rari.
Si affacciò alla finestra con questi pensieri e si accese una sigaretta. Si voltò a guardare sul divano-letto la sua ragazza che dormiva, sperando di non averla svegliata. L’orologio segnava le 5:05, c’erano ancora ( o soltanto, dipende dai punti di vista ) un paio d’ore di sonno a disposizione. Decise che gli sarebbero bastate quelle due ore, meno il tempo della sigaretta.
Tornò a fissare fuori dalla finestra la Torino che cambiava. Il grande muro verde sotto i suoi occhi divideva il palazzo da Corso Principe, ed era un’eredità temporanea dei lavori per il grande passante ferroviario, dove un tempo correvano le macchine adesso era rimasto un passaggio pedonale largo poco più di un metro. Più su, verso Porta Susa, intravedeva una delle mille deviazioni cittadine che spuntavano come funghi di giorno in giorno, alimentando in continuazione nuovi fantastici ingorghi e nuove originalissime bestemmie da parte degli automobilisti più intolleranti.
Ma tutto ciò lo riguardava ben poco, da un anno a quella parte. Il suo capolinea era lì, in quel palazzo della Torino Nord, e gli bastava sapersi muovere per quelle tre o quattro semplici vie che lo dividevano dall’immediato fuori città, dalla superstrada che collegava la sua valle con quell’appartamento.

Quindi a lui non importava della viabilità modificata a causa dei lavori per il passante, per la nuova stazione, o per la metropolitana. Tanto si perdeva lo stesso.
Ma la superstrada e quelle tre o quattro semplici vie le conosceva a memoria, a furia di farle due o tre volte a settimana, inizialmente sempre con l’ansia di sbagliare una rotonda e ritrovarsi all’improvviso per strade sconosciute che lo avrebbero condotto a vagare pericolosamente in centro, nella Ztl, di Milano.
Ripensò al motivo per il quale si era svegliato anzitempo. Aveva sentito delle urla provenire da fuori, vicino al palazzo, ma forse le aveva soltanto immaginate, o sognate, dato che in strada pareva tutto tranquillo e che la sua compagna non aveva dato segno di destarsi neanche per un secondo.

Tirò un’ultima nota alla sigaretta e gettò di sotto il mozzicone senza spegnerlo, poi tornò al fianco della sua fidanzata per le ultime due ore di riposo, prima della giornata lavorativa.
In realtà lui avrebbe potuto dormire di più, lavorava solo al pomeriggio, ma lei era legata gli orari dei mezzi pubblici e il suono della sveglia non concedeva alternative. Lui d’altronde, ne avrebbe avuto pure il tempo, non si sognava affatto di accompagnarla in macchina fino al lavoro attraversando la città, per poi doverla riattraversare in senso opposto tutto da solo e farsi preda del labirinto urbano, vittima della “pianta quadra” e delle sue innumerevoli insidie. Il suo amore per la ragazza era tale che non se la sentiva di darle questa apprensione. Lei ricambiava quel sentimento, e non gli chiedeva di farsi accompagnare.
Le 7:00 a.m. arrivarono implacabili e si dovettero alzare.

I tempi erano fantozziani, sveglia e caffè, scale, camminata veloce verso la fermata del tram raccontandosi i sogni fatti nella notte.
Lui le chiese se per caso, durante la notte, avesse sentito delle urla provenire da fuori, lei rispose di no.
Restarono insieme fino all’arrivo del 46 barrato, si diedero un ultimo bacio di saluto e lui promise che le avrebbe fatto uno squillo appena arrivato a casa, poi la vide salire e allontanarsi su quella fetta di polenta sferragliante, diretta verso i lavori in corso e le conseguenti deviazioni.
Mentre il tram si allontanava lento, circondato dai clacson, i fumi d’auto e il viavai di persone, s’incamminò verso la macchina per affrontare quei quaranta chilometri circa che lo separavano da casa.

Passò vicino al cantiere per il rinnovo della rete ferroviaria e vide le prime ruspe che si mettevano in azione. Poco più lontano stavano costruendo dei nuovi palazzi, vicino al recente cinema multisala e all’ennesimo centro commerciale. Quest’ultimo era strutturato come una città all’interno della città, aveva i suoi vari negozi specializzati e un supermercato, una pizzeria, un bar, una sala scommesse. Il tutto circondato da squallide mura in cartongesso che dividevano la piccola città dalla grande città, fatta di vari negozi specializzati, supermercati, pizzerie, bar, sale scommesse. Una sorta di matrioska capitalista che non dava scampo a nessuno. Chi più chi meno, era impossibile non cascarci.
Passava quindi accanto ai lavori in corso, presenti d’altronde in ogni dove, come in ogni città che si rispetti.
La città stava cambiando, crescendo, ed il suo mutato rapporto con Torino era significativo di come fosse cambiata la sua vita.
Un tempo Torino era passare la nottata ai Muri in condizioni psico-fisiche alquanto discutibili, ma soddisfacenti. Era arrivare in quella specie di disco-music-rockalternativo-pub, o quello che era, già ubriaco e fumato, con amici messi peggio di lui. E poi non riuscire ad entrare perché era “giovedì” e ci voleva la tessera. ( tra le righe: ragazzini sballati? È il sabato la vostra serata, tornate dopodomani )

Un tempo Torino era solo la ricerca “del porcaro” per un salutare panino salsiccia e crauti. Ovviamente subito dopo aver visto il caro vecchio Mohammed per una questione di affari.
Insomma, le sue “gite” in città erano sempre state parte di una vita che alcuni avrebbero definito sregolata ed eccessiva, e se approfondiva i ricordi erano in effetti molti gli episodi decisamente sregolati ed eccessivi a cui aveva assistito o partecipato. Da quello in cui fuggiva di corsa a causa di un senegalese incazzato che voleva rubare la collanina d’oro al suo amico, a quello che aveva comportato un veloce defilarsi attraverso il retro di un locale di Corso Vercelli per un improvviso blitz della polizia.
Ma ora non era più così, da diverso tempo. Da quando aveva conosciuto e iniziato ad approfondire il rapporto con quella ragazza, la sua vita aveva preso una piega apparentemente più convenzionale. Sicuramente meno avventurosa, forse più adulta.
Ora a Torino andava solo più per passare del tempo con lei: qualche mostra d’arte, qualche concerto quando capitava il nome o il gruppo giusto, ma soprattutto serate in appartamento a guardare un film in cassetta dopo una spartana cena. Ciò non significa che tutto questo fosse per forza meno pericoloso di una contrattazione notturna con un clandestino strafatto di coca, ma di certo offriva emozioni diverse.

Era felice di questo cambiamento nella sua vita. Le cose si erano fatte più serie ed aveva come l’impressione di essere riuscito a saltar giù appena in tempo da una giostra che girava troppo in fretta.
Perso in simili pensieri, arrivò alla macchina ed ebbe subito una spiacevole sensazione. Avvicinandosi alla vettura vide quella specie di fagiolo nero di plastica, il pirulino che indica la chiusura della portiera, alzato. Avvicinandosi ancora di più vide il vano portaoggetti aperto, ed un cd sul sedile.
La situazione era chiara.
Avevano forzato il nottolino della serratura e gli avevano svuotato la macchina. L’unica cosa rimasta era quel cd sul sedile.
Forse i ladri erano stati disturbati da qualcuno ( ripensò alle urla della notte ) e quel cd era rimasto lì per caso.
Forse ai ladri faceva cagare, quel cd.
Pensò a cosa gli avessero effettivamente rubato: dei cd, tanto per restare in tema, e basta. Ah no, anche un pacco di sigarette. Un magro bottino, ad essere obiettivi.
Comunque gli rodeva, erano quasi tutti originali, ed alcuni decisamente introvabili.
Riuscì tranquillamente ad aprire la portiera e a salire in macchina, dopo un minimo sconvolgimento iniziale cominciò a rilassarsi e a sentirsi persino fortunato. Avrebbero anche potuto rubargli tutta la macchina, o lasciargli qualche preservativo usato sui tappetini e qualche siringa piantata sul cruscotto.
Invece era tutto a posto.
Inoltre, faccenda non da poco, nonostante le sue nuove convenzionali abitudini, aveva un nuovo episodio di vita vissuta a cui far riferimento.
E qualcosa da ascoltare durante il viaggio di ritorno.
Inserì il frontalino dell’autoradio e in essa il sopravvissuto cd, accese la macchina e partì, dirigendosi verso nord. Più a nord di quanto già non si trovasse.


Richi Selva

Double Face

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Ritorna Mithril ,direttamente dal forum delle famiglia





Bella scopata che mi sono fatto.
Con una puttana, certo. E con chi, sennò? Con quel cesso di mia moglie?
L’ho vista mentre tornavo dal lavoro. Alta, bel culo, praticamente mezza nuda sulla strada. Vent’anni al massimo.
Che troia. Mi sono detto: ma nella mia vita quando me la faccio una così? Col lavoro che ho, voglio dire.
100 euro m’è costata, cazzo. Ma li valeva.
Vado, la accosto. Aveva l’aria di una tipa sveglia: l’ho capito, sai. Ho occhio per queste cose: stava sempre lì a guardarsi intorno. Neanche il tempo di salire in macchina e le ho piazzo una mano tra le cosce. Con quello che mi costi, ho pensato, voglio godermeli fino all’ultimo i miei soldi.
E quella che fa, mi toglie la mano? Ma che ti vergogni? Ma fai la puttana o non fai la puttana?
Sai che ti dico: fa come ti pare. Guarda fuori dal finestrino, manco che stessi da un’altra parte. Manco che il fatto non fosse il tuo. Tanto poi ci penso io, quando arriviamo in albergo. Pure quella schizzinosa mi doveva capitare.
Che poi, cosa avrai tanto da guardare lì fuori?
So come va con queste, come funziona: vengono da noi, fanno la vita per un po’, e coi soldi che prendono qui nel loro paese ci si sistemano. Famiglia compresa. Si comprano un alberghetto, un ristorantino, un’attività qualsiasi e campano di rendita. Mi hanno detto che certe vanno pure dal chirurgo per rifarsi la verginità, e se ci riescono abbindolano anche qualche idiota che se le sposa. Ma sì!
In albergo, quando si è spogliata, per poco non rimanevo bloccato: e chi l’aveva mai vista una così.
Girati, le ho detto, che qui si fa come dico io. Che mia moglie rompe in continuazione, su tutto, è capace di farti passare pure la voglia.
Bella scopata. Quasi ridevo quando l’ho riportata sulla strada.
L’ho fatta scendere con un’ultima palpata sul culo.
Ma quella niente, neanche se n’è accorta, subito è tornata al posto suo. Non perdono tempo, queste.
Stava già lì a guardarsi intorno.

* * * * *

A casa era meglio che non ci tornavo. Mia moglie mi ha esaurito lei, i soldi, le bollette e le amiche, e i bambini tra le palle poi …
Guardo la tele per rilassarmi un po’, così, ma niente. Ormai non fai a tempo ad accenderla che ti trovi davanti l’ennesimo pedofilo. Pervertiti di merda. Quanto mi fate schifo. Ma che ci provate a scoparvi i bambini, dico io?
Fa bene la chiesa a condannarvi: all’inferno dovete crepare. Per voi ci vorrebbe il linciaggio, altro che carcere, altro che pena di morte. Ma tanto là dentro lo ammazzano: so come funziona, dietro le sbarre.

* * * * *

Ormai è un mese che la cerco, quella: non si vede più. Ma possibile che già si è fatta i soldi? Che già se n’è tornata al paese suo? Eppure sembrava una appena arrivata.
Cazzo, per una volta che ne trovo una così.
Era una di quelle sveglie: l’ho capito, sai. Ho occhio per queste cose: stava sempre lì a guardarsi intorno.
Niente, non la si vede più.
Da un certo punto di vista, meglio così: penso un po’ alla famiglia. Sì lo ammetto, lo dico anche per farmene una ragione, certo. La famiglia è una grande rottura.
Ma un uomo deve pensarci comunque a queste cose. Alle cose serie, intendo. Come la famiglia. Uno non può pensare solo a divertirsi.
Sennò uno diventa superficiale.
Sennò uno che uomo è.

Mithril


Oggensioni #2

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La chiodatrice

Mia moglie compra quadri continuamente.
La cosa non mi dispiacerebbe se abitassimo in un museo, e neanche se vivessimo in appartamenti separati: in quel modo lei potrebbe ingaggiare la sua guerra alle pareti disadorne senza costringermi a spostare una copia di Kandinsky solo per capire che tempo faccia.
Così ho deciso di trarre qualcosa di buono dalla situazione ed ho comprato una sparachiodi, convinto di trovare un modo di rendere divertante un’operazione altrimenti noiosa come quella di appendere un quadro. Ho scoperto che il settore delle chiodatrici è un universo di prodotti dalle caratteristiche più diverse, e che una moglie può non approvare i tuoi acquisti.
Per trecentocinquanta euro ho acquistato una chiodatrice pneumatica per chiodi in nastro di plastica:pneumatica perché spara i chiodi con l’aria compressa, a nastro di plastica perché i chiodi sono tenuti insieme in una specie di cartucciera e chiodatrice perché spara i chiodi. È un potente attrezzo professionale ideale per pedane, tetti in legno e casematte. Ed io la uso per appenderci i quadri.
Ho optato per una Duo-Fast CNP 65Y, perché grazie al suo regolatore di profondità posso evitare di inchiodare il frigorifero del vicino.
Il vantaggio di questo tipo di chiodatrici è tutto nel sistema che tiene assieme i chiodi.Grazie a un nastro di plastica, questi sfilano dentro l’attrezzo come in un’etichettatrice o, se vogliamo, una mitragliatrice, senza incorrere nei problemi delle bobine di chiodi elettrosaldati. Questo scongiura la presenza di chiodi difettosi, limita gli sprechi, permette di non inchiodare a vuoto e migliora la fedeltà delle citazioni da Full Metal Jacket.
Con una pressione di esercizio di 5-7 bar e un consumo d’aria di 2,1 lt a 6 bar al colpo, posso fingere con gli amici di capirci qualcosa.
La chiodatrice si presenta come un normale trapano sprovvisto di punta ed un largo cilindro alla base. Nel cilindro si caricano bobine da centocinquanta chiodi: una lunga fettuccia di chiodi uno dietro l’altro, arrotolata a formare una specie di tamburo. Caricarla non è difficile, se riesci a sbarazzarti in fretta del fachiro.
Gli avvertimenti contenuti nelle istruzioni sono chiari: indossare protezioni, non usare gas esplosivi in luogo dell’aria compressa, non trasportare la chiodatrice premendo il grilletto, non usarla per riti satanici o vendette trasversali, non insultare la chiodatrice e mai, per nessuna ragione, paragonarla a un avvitatore. Subito dopo l’acquisto a mia moglie è passata la passione per l’arte, giusto per farmi un dispetto. Così l’ho regalata a mio padre, lui la usa per fissare a terra gli zerbini dei vicini.
Ce l’ha con la ditta di pulizie.
Ne consiglio l’acquisto a carpentieri, operai delle ferrovie, falegnami e gente che ha bisogno di recensire oggetti di dubbio interesse.

gabbbbro.

Informazeide #7

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Il suo profilo era quello delle palazzine disseminate disordinatamente sui fianchi delle colline della periferia più profonda, piatto e spigoloso come i prefabbricati che negli anni sessanta e settanta avevano popolato i terreni fangosi di Roma a decine. Quelle case a sette, otto piani, cadute come briciole ad un dio edile. Un dio che sublimava pilastri in camicia d’acciaio e blocchi di laterizio.
Roberta era così, bianca e spenta come intonaco asciutto.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Per ogni locandina gonfia di bolle d’aria che si allungava ai margini del suo campo visivo. Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. Roberta avrebbe aspettato di vederli in tv, così ripeteva “stronzate”.
Camminava seguendo in superficie il percorso della metropolitana, di stazione in stazione, senza soldi per salire sui vagoni. Cercando una ricarica di piccolo taglio per il cellulare. Poggiandosi ai pali sormontati da M luminose lungo una via Tuscolana gravida di megastore dal personale precario e botteghe sulla via del fallimento, mendicando una sigaretta per poi ripartire. Soffocata da ragazzine smorfiose che camminavano urlando al telefono, da uomini incapaci di togliere il casco per prelevare denaro agli sportelli automatici, da anziane allarmate e guardinghe soffocate nelle calze elastiche contenitive.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Di ogni libreria che non mostrasse in vetrina agende e lucine per le letture notturne. Del banchetto che raccoglieva firme per un referendum ambientalista.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.

Due minuscoli seni che si riducevano a capezzoli puntuti sagomavano la sua maglia sbiadita. Seni da accarezzare con leggerezza, come soffiando coi gesti. La pelle dei polsi tirata sulle ossa come carne sottovuoto. Tantissime costole, un’infinità a vederle così, sporgenti e visibili, come una maschera tribale fatta di ossa e pelle e fuochi artificiali di lentiggini.
Si era plasmata sulla forma di quella città sovrappopolata di case vuote e centri commerciali pieni, e come questa era affamata di immagini ritoccate e cibo veloce, da consumare e sprecare. Tutte le volte che fosse stato possibile. Impulsi visivi e olfattivi da spremere, messaggi da recepire.
Era vogliosa di carboidrati complessi e grassi saturi, e non aveva soldi per mangiare che non fossero quelli che rimanevano della pensione del nonno una volta pagato l’affitto o quelli che racimolava saltuariamente.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Lo diceva dei quotidiani, dei negozietti di belle arti, degli ingressi tristi e desolati dei teatri, delle code interminabili per le prime cinematografiche e dei nottambuli che attendevano fuori dalle librerie i nuovi romanzi di Harry Potter.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.

Come Roma, Roberta era vorace e assopita, in attesa che le cose migliorassero ma senza mai crederlo veramente possibile. I suoi problemi attenevano alla realtà, questo sapeva. Cambiare lavoro agognando qualche spicciolo in più per ritrovarsi poi con sempre meno soldi, questo faceva. Puliva le scale degli sterminati condomini di Roma sud e sud-est che avevano rinunciato alla portineria, svuotava i cestini negli uffici che preferivano qualcuno che lavorasse in nero - troppo avidi per rivolgersi a una ditta e troppo terrorizzati per versare dei contributi. Cento, centoventi euro ogni settimana. Quello che non andava per sopravvivere finiva in traffico telefonico e mollettine per i capelli.
I risultati delle sue somme erano differenze, tutto ciò che porta ricchezza intellettuale comportava povertà materiale. Il proprio discernimento lo maturava gomito a gomito con migliaia di estranei in giro per la metropoli ingorda, notando le diversità, assorbendo l’altrui diffidenza. La città sostituiva al naturale odio degli individui una sovrastruttura mentale, una parvenza di autorevolezza, una costruita giustificazione. La comunicazione si riduceva ad elettricità statica, a tumori generati dalle onde elettromagnetiche. Non capiva come in una famiglia ci si potesse sentire soli, non capiva come si potesse ridurre le proprie ore alla contemplazione di qualcosa – immagini o storie, palazzi o nuvole. Provava pena per i malnutriti africani dalle pance gonfie, disgusto per i mocciosi dai piedi nudi attaccati al collo delle madri agli angoli delle strade.
“Stronzate”, ripeteva. “Perdite di tempo e di soldi”. Di ogni notte bianca o festival o piazza gremita di gente festante, di ogni restauro interminabile, dei musei aperti la notte, delle riviste patinate da dodici euro ciascuna, del cibo biologico che costa il doppio dell’altro, dei viaggi senza spiagge da occupare.
Di ogni concerto reclamizzato, delle pubblicità parapedonali dei film in uscita. “Stronzate”.

Sull’asfalto, sotto l’impronta di una suola di gomma, un foglietto. Un biglietto per la metropolitana, un biglietto valido. Quelle fortune delle quali nutrirsi, l’entusiasmo degli eventi inattesi.
Roberta attraversava i tunnel sotterranei aggrediti dall’aria che si spostava ferocemente. Ai margini del suo campo visivo si allungavano pubblicità di concerti e di film in uscita.
Stronzate.

gabbbbro